STUDI STORICI | Chi era Paolo Cappello





Articolo di Matteo Dalena su ICSAIC 

Un bambino proveniente dal baliatico, nato da genitori ignoti a Pedace (Cosenza) il 23 gennaio del 1890, venne registrato come Paolo Cappello. Affidato a un certo La Rosa, coniugato con Agatina Iaconetti, Cappello si formò nel quartiere cosentino della Massa, guadagnandosi da vivere come muratore. Carattere turbolento, tra il 1906 e il 1910 fu soggetto a procedimenti giudiziari per furti, lesioni, danneggiamenti, minacce e oltraggio all’autorità, per i quali capi d’imputazione, come risulta dal suo Certificato penale, dovette scontare brevi periodi di reclusione nel carcere di colle Triglio. Sposato, senza figli. Dapprima vicino alle idee repubblicane del tipografo Federigo Adami, intorno al 1914 divenne socialista (La vita del martire, «La Parola Socialista», 21 settembre 1954), entrando a far parte del Comitato Direttivo della Sezione Socialista Cosentina, intitolata a Pasquale Rossi (Una piccola storia che sarà la storia, «La Parola Socialista», 12 ottobre 1924). «Non vi fu piccola lotta cosentina, economica o politica, che non lo rinvenne nella prima linea sempre pronto a sguainar l’anima dritta là dove la lotta per il pane e per l’Idea», ricorderà Pietro Mancini (Ivi).
Il 17 marzo del 1924 fu arrestato insieme ad altri compagni, tra cui Nicola Adamo, con l’accusa di aver sfregiato il volto del giovane fascista Giuseppe Carbone ma, già alla metà di giugno dello stesso anno, la Corte di Cassazione li assolse per mancanza di prove. Così Pietro Mancini, avvocato di Cappello: «Paolo Cappello venne riconosciuto innocente e assolto con formula piena. La calunnia si era spuntata contro la giustizia e di più contro le prove. I fascisti erano rimasti delusi ed amari. Si segnarono a dito quell’assoluzione. Paolo Cappello non si spaventò delle minacce della Disperata» («La Parola Socialista», 21 settembre 1954).
La sera del 14 settembre del 1924, una domenica, al culmine di una sparatoria consumatasi sul ponte San Francesco a Cosenza, un proiettile esploso presumibilmente dalla rivoltella del centurione fascista Antonio Zupi raggiunse Paolo Cappello procurandogli una ferita grave al petto con ritenzione del proiettile. Trascinatosi a stento sul corso principale, il ferito venne raccolto e portato a braccia in ospedale. Nelle stesse ore Nicola Adamo veniva pestato a sangue. Al mattino del 21 settembre del 1924, Paolo Cappello si spense dopo giorni d’agonia. Ai funerali, mutilati dal divieto di fiori, bandiere e discorsi, parteciparono circa diecimila persone (Diecimila persone ai funerali del compagno Paolino Cappello, «Avanti», 25 settembre 1924).
Subito dopo il ferimento, interrogato dal Procuratore del Re Tocci, Cappello ebbe modo di indicare il suo aggressore nel centurione Antonio Zupi che, posto in stato di fermo, fu tradotto in carcere. Dall’istruttoria processuale si venne a sapere che nelle ore precedenti l’agguato il milite Francesco Bartoli aveva strappato il tradizionale garofano rosso dalla giacca del socialista Francesco Mauro. Per questo motivo lo stesso Bartoli era stato preso a bastonate da Achille Mauro, fratello di Francesco («La Parola Socialista», 9 luglio 1925).
Il processo contro Antonio Zupi e un’altra decina di militi si tenne nella Sezione d’accusa della Corte d’Assise delle Calabrie di Catanzaro, il 23 giugno del 1925. In un passaggio della sentenza si legge: «Non può assolutamente dubitarsi che lo Zupi è l’unico autore della lesione che cagionò la morte al Cappello». Ma in difformità rispetto all’accusa di omicidio volontarioformulata dal pubblico ministero, la Sezione d’accusa ordinò il rinvio del principale imputato dinanzi alla Corte d’Assise di Cosenzaper rispondere al delitto di lesione seguita da morte. «Era intenzione dello Zupi e degli altri del gruppo fascista di vendicarsi contro i socialisti per le bastonate inferte al Bartoli. Tutto il gruppo di fascisti postosi di accordo corse dietro ai socialisti con tale determinato disegno. Sparò lo Zupi, spararono gli altri con idea di ledere, non di uccidere. Se non che dalla lesione prodotta al Cappello seguì la morte».
Il processo venne spostato da Cosenza – «sede sconveniente e avversa agli imputati» – per essere rimesso, a partire dal 31 ottobre del 1925, in un tribunale di Castrovillari cinto d’assedio da forze giunte in massa da Cassano allo Ionio e Spezzano Albanese. «La legittima difesa milita a favore dei fascisti, e che i giurati non negheranno a meno che, per legittima reazione, non vorranno proclamare la loro completa innocenza», fu la conclusione dell’arringa dell’avvocato Corigliano, difensore di Zupi (Il processo Zupi, «Calabria fascista», 18 novembre 1925). Nel corso delle udienze Zupi sostenne di essere arrivato sul ponte di San Francesco a spari ultimati, venne ripetutamente negato l’episodio del garofano strappato, infine alcuni testimoni misero in dubbio le dichiarazioni rese dal Cappello. Il processo si svolse in un clima di forte pressione e toni apologetici, a cominciare dal grido «Aprite la gabbia, passa l’Italia», che accolse in aula gli imputati. Lo stesso verdetto finale di assoluzione per Zupi e gli altri imputati fu, a detta del giornale «Calabria fascista», «un comizio improvvisato», ma anche «una folla di popolo osannante all’Italia, al Re e a Mussolini».Pietro Mancini e Fausto Gullo, difensori della parte lesa, furono costretti nella circostanza a barricarsi in casa del presidente del Tribunale, Campolongo, come riporta «La Parola socialista» del 21 settembre 1954.
Il 2 ottobre del 1944, il Partito d’Azione, insieme al sindaco socialista Vaccaro, decise per l’intitolazione a Cappello della vecchia piazza Littorio (La commossa rievocazione del martirio di Paolo Cappello, «La Parola Socialista», 11 ottobre 1944).
Il 16 marzo del 1945 la Suprema Corte di Cassazione, lette le conclusioni del Procuratore Generale Battaglini, dichiarò «l’inconsistenza giuridica della sentenza di assoluzione emessa il 10/11/1925 dalla Corte d’Assise di Castrovillari nei confronti degli imputati […]». Secondo la Cassazione si trattò infatti di «delitto punito con pena detentiva superiore nel massimo di tre anni e commesso per motivi fascisti come si evince dalla motivazione della sentenza di rinvio a giudizio della sezione d’accusa». Allo stesso tempo la Corte di Cassazione non mancò di notare «la influenza esercitata sulla decisione dallo stato di coercizione morale determinato dal fascismo […] e dalle modalità in cui il dibattimento si svolse». Come ricorda Pietro Mancini in una memoria scritta in occasione del trentennale dell’omicidio Cappello: «Venne l’amnistia Togliatti e gli imputati ne chiesero l’applicazione, che fu loro concessa» («La Parola socialista» del 21 settembre 1954).
A Cappello, nel dicembre del 2016, è stata intitolata la sezione provinciale cosentina dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. (Matteo Dalena)  







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Nota bibliografica

  • Sentenzaintegrale di primo grado del processo contro Antonio Zupi e altri,«La Parola socialista», 9 luglio 1925;
  • Francesco Spezzano, Fascismo e antifascismo in Calabria, Lacaita,Manduria 1975, pp. 81 e 96;
  • Enzo Stancati, Cosenza nei suoi quartieri(vol. 1), Pellegrini, Cosenza 2007, p. 182;
  • Pietro Mancini, Il partito socialista italiano nelle provincia di Cosenza, Pellegrini, Cosenza 1974;
  • Ferdinando Cordova, Alle origini del PCI in Calabria 1918-1926, Bulzoni, Roma 1977, pp. 59 sgg.;
  • Ettore Coscarella, Cosenza dal 1900 alla caduta del fascismo. Particolari della Città, Nuova Santelli Edizioni, Cosenza 2012, pp. 77 sgg.
Nota archivistica

  • Archivio di Stato di Cosenza (ASCS), Processi Penali, b. 2777;
  • ASCS, Processi Penali, b. 3039. 
Archivio Centrale dello Stato, Suprema Corte di Cassazione, Camera di Consiglio, Sentenze, 16 marzo 1945.

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